Genova Pra’, 14 aprile 2013
Nota del redattore:
questo scritto mi e’ stato donato nel 2005, da un socio anziano deceduto che molto diede alla societa’ in un momento difficile dal 1990 al 2000. Il suo intento (da vero praino) era di far conoscere ai soci nuovi alcune vicende societarie, alcune lontane nel tempo, altre piu’ vicine, per far rivivere se cio’ fosse stato possibile lo spirito del tempo e’ quindi attaccarsi di piu’ alla societa’. Il mio compito sara’ quello di riportare fedelmente cio’ che il socio ci ha tramandato . La sua volonta’ era di mantenere l’anonimato, ma ringraziandolo post-mortem, possiamo ricordarlo con il suo nome: Michelini Giacomo ’26, ex presidente della associazione. Si invitano i soci, se vogliono, ad arricchire con note e ricordi la storia sociale.
Monaco G.D. (Presidente dal 2001 al 2011)
Dall’autore:
lo scopo di queste pagine e’ di far conoscere ai nuovi soci, parte della storia della societa’ in cui si sono iscritti, chi erano (nell’ambito del loro mestiere), i soci degli anni precedenti, e cos’era la spiaggia di Pra’.
La speranza che questo contribuisca ad eliminare qualche incomprensione che si era verificata nel passaggio dal vecchio al nuovo.
Cercando di essere il piu’ possibile obiettivo, provero’ ad illustrare quanto sopradetto dividendo il tutto come segue:
- come e quando e’ nata la nostra societa’ e il cammino fatto sino ai giorni nostri;
- chi erano i pescatori di Pra’:
- la pesca di allora e la spiaggia.
Alcuni fatti avvenuti nel tempo degni a mio avviso di essere ricordati.
Per evitare ogni possibile partigianeria, si evitera’ di fare nominativi, eccezion fatta per Bignone Benedetto, deceduto da molti anni, in quanto fu il primo presidente della societa’.
La societa’ nasce nel 1919 col nome di Società di Mutuo Soccorso Armatori e Marinai Pescatori di Pra’, la sede (almeno cio’ che ricordo) era sul lato monte di via Pra’, un pochino a levante del vecchio passaggio a livello.
Per disaccordi legati alla pesca (i fondatori erano contrari alla nuova pesca con le lampare) inizialmente non vennero accettati. Quelli favorevoli a tale pesca, tipo di pesca che poi si rivelera’ di gran lunga quella vincente e accettata da tutti e pertanto, tutti i nuclei familiari dediti alla pesca entrarono a far parte della societa’.
Nella sede, vi era un’osteria o rivendita di vino, che veniva gestita a turno, credo annuale da un nucleo familiare di pescatori.
L’attuale sede, costruita dal comune di Pra’ (non di Genova), era stata adibita a deposito di ceste per contenere il pesce, le indimenticate “panee’’ in quanto di fronte avveniva la contrattazione del pescato tale localita’ era ed e’ chiamata “u muggiu’’.
Questo locale venne abbellito dal dono della statua di San Pietro da parte della Contessa Viglietti in memoria del padre, il Marchese Negrone, in data 29 giugno 1930.
Al momento della posa in opera venne cantata una canzone, le cui parole, in base ai ricordi tramandati, viene piu’ o meno riportata nella parte “fatti avvenuti’’.
Quando negli anni cinquanta, la sede venne spostata dove attualmente si trova (all’epoca), (attualmente la sede e sita presso i locali della palazzina canottaggio), e quindi nacque il bar dei pescatori. Data l’incredibile affluenza di pescatori e rivenditori di pesce, questo bar ebbe un successo enorme, tale da superare nello smercio qualunque bar della zona.
Il locale (il banco bar era in fondo a sinistra entrando) si doto’ anche di televisore per sopperire ai mesi invernali e verso la fine degli anni sessanta venne costruita una veranda, che doveva essere amovibile ma che in realta’ non fu mai rimossa. I gestori che si sono alternati negli anni d’oro, salvo qualche sporadica eccezione, non erano pescatori, anzi perlopiu’, nulla avevano a che fare con la spiaggia, e con Pra’, pagavano una buona locazione e avevano un bar molto redditizio. Per questioni tecniche venivano fatti soci.
Fortunatamente gli altri bar di allora nonostante le nostre palesi irregolarita’ mai fecero rimostranze.
La societa’, con gli introiti del bar, metteva da parte qualche soldo, gli altri cespiti venivano da una irrisoria “quota soci’’ e da un’altra irrisoria somma, quale affitto ad alcuni soci di una vecchia costruzione il legno, anch’essa con una lunga storia, ma poco significativa e pertanto non mi dilunghero’ oltre.
Nello statuto societario veniva indicato un sussidio a favore del socio in caso di malattia o infortunio, la somma non era granche’ e per giunta temporale. Non so se cio’ avvenisse effettivamente eseguito, comunque, in tempi piu’ recenti la situazione era: i soci al compimento del sessantesimo anno di eta’ erano esentati dal pagamento della tessera sociale, anzi agli stessi, a fine anno, veniva elargita una piccola somma che in caso di decesso tale somma andava alla famiglia, ma solo per l’anno in corso.
Ai funerali partecipava un alfiere con la bandiera sociale e veniva posta una bella corona. A quei tempi (tra gli anni sessanta e settanta) chi non partecipava ai funerali, alla commemorazione con corteo del 2 novembre o alle assemblee, veniva multato (ai presenti veniva rilasciato un cartellino), le multe non erano molto elevate, ma essere multato per non aver partecipato ad un funerale non era simpatico. Pertanto dopo molte lamentele, specie da parte dei giovani, tutte le multe furono abolite. Dopo gli anni ’80, il bar comincio’ a dar segni di decadenza. Molto pescato veniva portato direttamente al mercato di Piazza Cavour, dove per altro si riversava anche la maggior parte dei compratori e le rivenditrici al dettaglio, e regattun-e, venivano servite sul posto di vendita da appositi camioncini. Anche la spiaggia iniziava la sua decadenza e il periodo balneare aiutava sempre meno il bar. Negli anni ’90 molti soci abbandonarono la societa’ e il bar andava male, la S.M.S. sembrava alla fine.
Con un colpo di coda, alcuni soci, riuscirono a tenere in piedi la societa’, a recuperare il bar, con una clientela diversa anche se minore e cosi’ arriviamo ai giorni nostri.
Dispiace, che magari per scarsa conoscenza dei fatti, questi soci non siano stati valorizzati per quel che meritavano.
Chiusa questa polemica (precisando che lo scrivente era tra quelli che se ne erano andati) che non verra’ aperta, parliamo della grande e riuscitissima festa per il 50° anniversario di fondazione avvenuta nell’aprile del 1969.
Qualche anno prima, la nostra societa’ era stata invitata a partecipare al cinquantenario della societa’ pescatori di Bordighera.
Muniti della bandiera sociale, parti’ una delegazione di soci anziani, e al loro ritorno, erano cosi’ entusiasti che a tempo debito si cerco’ di eguagliare la festa.
L’inizio fu tumultuoso, nelle numerose assemblee indette in merito, vi era il segretario che non voleva spendere una lira. Viceversa alcuni soci volevano la medaglia d’oro per tutti, altri ancora volevano una gita con relativo pranzo.
Chi voleva per madrina una politica a quei tempi sulla cresta dell’onda, chi invece preferiva la vedova del primo presidente, il summenzionato Bignone Benedetto.
Fini’ cosi’: la prima domenica medaglie d’oro e diploma per tutti i soci, festa grande e premiazione nel mercato coperto “muggiu” imbandierato, foto ricordo con la madrina (la vedova del primo presidente), lapide ricordo, benedizione bandiera nuova fatta a Torino.
Domenica successiva: gita e pranzo nel basso Piemonte in pullman e fotografo a disposizione, incredibile “performance” comica con epilogo al ristorante del nostro portabandiera, persona dalla comicita’ innata.
Veramente indimenticabile.
Passiamo ora a parlare dei pescatori di Pra’ e di seguito della pesca di allora e della spiaggia di Pra’.
Nessuno di noi “praini” puo’ parlare dei vecchi pescatori asserendo di essere del tutto obiettivi, in quanto fanno parte del nostro DNA.
E’ pero’ inconfutabile che, lavorando in una spiaggia aperta a qualsiasi intemperie, priva di un qualsiasi riparo, riuscivano ad andare in mare varando e tirando le barche anche con mare a volte agitato e sovente nelle ore notturne.
Nonostante queste palesi difficolta’ nessuno dei nostri vecchi, ha mai parlato di disgrazie avvenute in mare, come, a memoria d’uomo, nessuno ha mai riportato ferite degne di rilievo.
In realta’, alla fine degli anni 40, vi fu un naufragio avvenuto in pieno giorno e con mare quasi calmo. Il fatto fu dovuto per aver caricato due barche dalla lunghezza di circa 5 metri su una barca da circa 8 metri motorizzata e con rete ed equipaggio a bordo.
Comunque l’abilita’ e la solidarieta’ dei pescatori di Pra’, fece si che tutti si salvarono e le barche vennero recuperate.
Nei primi anni del secolo scorso, i tipi di pesca praticati erano piu’ o meno i seguenti:
le “manate” rete dritta lunghezza 100 metri per pezzo che mediante particolari testate venivano legate tra loro raggiungendo la lunghezza voluta.
L’altezza della rete, lineare e senza sacco, era di 600 maglie, direi pertanto circa 10 metri (in pesca). Venivano calate generalmente al tramonto e sovente l’operazione veniva ripetuta nella notte “strassû” e poco prima dell’alba “arbû”. La larghezza delle maglie variava di poco, piu’ piccola per la pesca delle acciughe, leggermente piu’ aperta se si pescava alle sardine. Ovviamente cio’ era dovuto alla stagione.
Altri pesci non erano previsti, esclusi i delfini, considerati una vera e propria calamita’ naturale in quanto si mangiavano i pesci appesi e rovinavano le reti.
La “monata” ovviamente fornita di sugheri e piombi, si sarebbe posata sul fondale se non fossero stati ulteriori galleggianti “segnê” che, posti a 25 metri uno dall’altro, muniti di una sagola di alcuni metri, posizionavano le reti a media altezza, posizione ideale per la cattura dei pesci.
La rete, non veniva abbandonata, anzi l’imbarcazione, legata sulla testata verso il largo (la rete formava una grossa “L” rovesciata) la teneva in “forza” evitando che si presentasse afflosciata.
I pescatori dovevano anche tenere d’occhio i galleggianti, se per caso andavano sott’acqua recuperavano subito la rete in quanto significava che molti pesci erano rimasti “immagliati” e c’era il pericolo che la rete calasse sul fondo. In quel caso, il recupero sarebbe stato difficoltoso e con notevole danneggiamento del pescato.
I pesci, infilati nella rete per la testa, venivano “smagliati” con estrema abilita’ e velocita’ in modo da non danneggiarli molto. Questa pesca, agli inizi degli anni ‘30 verra’ soppiantata dall’avvento delle “lampare”.
Altra pesca fatta al largo era “gongoû” ,trattasi di una pesca generalmente diurna, il numero delle persone imbarcate era rigorosamente 7 (sei adulti ed un ragazzo), la rete era piccolissima, un vero gioiello, di tecnica, il sacco era piu’ lungo dei laterali, si sopperiva alla ridottissima misura della rete con molte funi, fatte con un a speciale erba, leggerissima asciutta, molto pesante quando era imbevuta. Queste funi “libben” erano lunghe 25 metri, e per la pesca al largo (moscardini) ne venivano impiegate circa 20 per parte (le funi erano 2) in realta’ la parte di poppa era piu’ lunga di oltre 100 metri.
Quando le funi in mare erano pari, si cominciava a tirare anche dalla parte di prua.
Queste funi molto grosse, appesantite dall’acqua aravano il fondo formando una nuvola di fango facendo affluire i pesci nel centro delle due corde in modo che, il passaggio dalla rete, provvedeva alla cattura.
La piccola rete doveva essere tirata assolutamente dritta da ambo i lati e pertanto sulle corde vi erano dei piccoli segnali di stoffa o altro materiale posti a 12,50 metri che dovevano essere pari in ogni momento.
La stessa rete e lo stesso sistema, veniva usato quando piu’ sottocosta si pescava alle triglie da fondo, solo il numero dei “libben”era minore.
Ovviamente, se oltre ai moscardini e alle triglie ci rimaneva qualche altro pesce, era del tutto ben accetto.
Le reti da posta tipo “tremaglie e bughe’’ e non erano molto in uso da noi, si usavano molto di piu’ sul ponente e pertanto non ne parlero’ oltre.
Vi erano poi le reti tirate dalla spiaggia, la maggiore era la “re de föa” (rete del largo) era un enorme sciabica che si calava molto al largo (le corde laterali erano di 160 metri e a volte se ne usavano due barche, la piu’ grande con a bordo almeno sei uomini, tutte le corde, di levante, la rete e una sola corda di ponente, la barca piu’ piccola, generalmente con un solo uomo, aveva a bordo il rimanente delle corde di ponente “caamentu’’ lasciata la “cima” a terra, la barca piu’ piccola, calcolando dove la barca grande avrebbe terminato di calare la rete, si portava sul posto. Quando le barche si incrociavano, le due parti del cavo di ponente venivano annodate, si lasciavano scivolare in mare e contemporaneamente si segnalava al personale rimasto a terra (alzando un remo) che si poteva iniziare a tirare le funi da entrambi i lati. Da precisare che a distanza di circa 300 metri, sulle corde venivano fissati dei galleggianti “barï” che avevano il compito di tener sollevate dal fondo le corde (di canapa) e nel contempo venivano utili in caso, non molto raro, che una corda si spezzasse. L’operazione di recupero poteva durare anche tre ore.
A tirare la rete partecipavano uomini, donne e ragazzi. La divisione dei soldi ricavati avveniva cosi’:
1/3 dell’intera somma ai titolari (o al titolare) dell’attrezzatura, i restanti 2/3 venivano divise in “parti” una parte piu’ mezza andava agli uomini che a bordo delle barche avevano calato la rete, una parte agli altri uomini, tre quarti di parte andava alle donne, meta’ parte ai ragazzini.
Successivamente, ma molto dopo, le “parti” vennero unificate, prendeva solo la doppia parte chi andava anche a bordo a calare la rete, e qualcosina in piu’ veniva elargita a persone pratiche del mestiere.
La terza parte del ricavo al proprietario, vigeva per tutti i tipi di pesca, esclusa la pesca con le lampare, molto piu’ usurante per le attrezzature. Le spese vive, gasolio, ghiaccio ecc.. Venivano tolte dal totale prima di iniziare le divisioni. Il proprietario o i proprietari, in qualsiasi tipo di pesca, se partecipavano, come generalmente succedeva alla pesca, entravano a far parte alla divisione, anche come marinai. Per la pesca alla lampara, il proprietario, dopo aver tolto le spese vive tratteneva il 50% del ricavato e ovviamente partecipava, se presente alla divisione del restante 50%.
Il tipo di pesca “risi de foa”si usava generalmente da ottobre a gennaio, vi poteva rimanere qualunque tipo di pesce, ma piu’ che altro si pescavano sardine.
Stesso tipo di rete ma piu’ piccola (a reietta) veniva usata in primavera per le sardine novelle (pase) mentre nei mesi di febbraio e marzo, alla stessa rete, veniva sostituita la parte terminale del sacco con una rete a maglie tipo zanzariera per la pesca dei bianchetti.
Le corde laterali della reietta erano minori di quella della rete del largo in genere se ne mettevano da 2 a 5 per parte, sempre di 160 metri cadauna.
Questo tipo di rete poteva essere usato anche da bordo di un imbarcazione per la pesca dei bianchetti, in quel caso, in pratica non si usavano corde, solo un centinaio di metri di poppa e altrettanti per ancorarsi. La rete si salpava dalla barca ancorata.
Prima dell’inizio dell’ultima guerra, in pratica non esistevano barche da pesca motorizzate, il tutto avveniva a remi, per spostamenti piu’ lunghi, quando il vento era sufficiente si usava la vela altrimenti… “oga” (voga).
Questo gran vogare, rendeva i nostri pescatori validissimi nelle gare a remi, che avvenivano con le stesse barche da pesca, scegliendo quelle piu’ valide e di misura.
Le sfide tra Pra’ – Sampierdarena – Cornigliano e Foce, erano accesissime anche se in realta’, il premio consisteva in una bandiera (che andava al proprietario dell’imbarcazione vincente) e di una medaglia agli equipaggi del primo e a volte del secondo equipaggio, in ordine d’arrivo.
Le medaglie potevano essere di qualsiasi metallo, ma era tassativamente “vietato” l’oro.
Quella gente semplice, era contenta lo stesso.
L’avvento della pesca con la lampara, segno’ del tutto la fine della pesca con le “manate” essendovi un divario di rendita enorme, diminui’ notevolmente anche la pesca con le reti del largo e quella del “gangoû”mentre resistette e resiste tutt’ora la pesca dei bianchetti, cio’ in quanto la stagione in cui si pescano e’ la meno indicata per le lampare. Inoltre e’ una pesca molto semplice e il costo dei bianchetti e’ elevato.
Non mi dilungo a parlare della pesca con le lampare o ciancioli, in quanto come pesca moderna e’ piu’ o meno nota a tutti.
Le reti e le corde, quando erano di cotone o canapa, dovevano essere poste ad asciugare a scadenze ravvicinate, e se usate regolarmente, dovevano essere tinte almeno una volta al mese.
I fornelli, le caldaie e le vasche, erano vicine al nostro bar, circa 30 metri a ponente.
Le due caldaie, una di ferro e una di rame, contenevano diverse centinaia di litri d’acqua. Quest’acqua, veniva portata in ebollizione mediante l’uso di legname da recupero, unitamente a gomma da recupero. L’uso di quest’ultima, specie con la brezza di mare “deliziava” gli abitanti della vicina Pra’ (tra l’altro la tinta si faceva molto nel periodo estivo) che onestamente, non si lamentavano mai.
Quando l’ebollizione era alta, si buttava nell’acqua un sacco di corteccia (credo di pino) appositamente trattata, e per migliorarne la potenza, si aggiungeva (quando c’era) una sostanza di colore scuro dalla forma compatta che rompendola con un martello sembrava un blocco di vetro affumicato. Cos’era non lo so’, i vecchi lo chiamavano “c’abbracciv”.
Il palcoscenico di questo spettacolo di vita reale era la spiaggia di Pra’, molto lunga e profonda, per la maggior parte sabbiosa, esclusi i circa 20 metri che adducevano al mare, quel tratto era formato da piccole pietre arrotondate che piu’ si avvicinavano alla battigia piu’ diminuivano di grandezza, sino a diventare poco piu’ che granelli.
Il curioso era che invariabilmente, con il mare grosso, queste pietre sparivano e la spiaggia diventava una lunga distesa sabbiosa.
Man mano che il mare si calmava, restituiva le pietre. Per strano che possa sembrare, se il mare si calmava senza restituire le pietre, significava indubbiamente che entro poche ore il mare sarebbe nuovamente aumentato.
Su questa spiaggia convivevano i pescatori, piccoli cantieri navali, dediti per lo piu’ alla riparazione dalle famose “chiatte”, e innumerevoli stabilimenti balneari, siti perlopiu’ nella parte di ponente.
La spiaggia, sino agli anni ‘50, subi’ poche variazioni, escluso il pontile a mare dell’ILVA e i muraglioni con casematte dei tedeschi, che pero’ non provocarono alcunche’ alla limpidezza delle acque, anzi il pontile divenne un fertile vivaio di “muscoli” e pesci.
Verso i primi anni ‘60, nei pomeriggi di “macaia” incominciarono ad arrivare le acque gialle dello SCI e i rifiuti delle petroliere. In poco tempo, divento’ impossibile raggiungere l’acqua senza annerirsi i piedi o gli stivali, la linea di galleggiamento delle barche era tutta nera, i “bagnanti” cominciavano a preferire altre localita’, al largo le bettoline scaricavano materiale per la costruzione della diga foranea, dalla stazione ferroviaria di Voltri con direzione levante, partiva un enorme inarrestabile discarica, la spiaggia di Pra’, la grande, enorme, magnifica spiaggia, si avvicinava a scomparire.
Anche se col rimpianto che non lascera’ mai (forse sembra di rimpiangere la spiaggia, ma in realta’, si rimpiange quella gente e anche quell’eta’) bisogna riconoscerlo che comunque certi tipi di pesca sarebbero finiti, le attuali imprese di pesca hanno bisogno di porti ben riparati, lo stesso vale per la moderna nautica, non molto amata da una parte di noi, ma che da’ lavoro.
Per queste cose, il canale di calma di Pra’ e’ molto indicato, pertanto per i nuovi soci e’ positivo e per i soci anziani, con gli scivoli, i verricelli e forse (inguaribile pessimista) le casette, nel complesso accettabile.
Cerchero’ ora di illustrare alcuni fatti avvenuti nel tempo.
La data nessuno piu’ la ricordava, neanche approssimativamente, ma il fatto era indubbiamente accaduto: un lontano pomeriggio, evidentemente non il periodo invernale, si presento’, a pochi metri dalla riva un oggetto qualificato quale legna da ardere. Una persona di Pra’, ma non meglio identificata, si getto’ in mare per recuperarla. Raggiunto l’oggetto, questa persona, smanacciando (i vecchi dicevano facendo ciao con la mano) scomparve tra le acque in un turbinio di piccole onde. Molti pescatori accorsero calando anche le reti ma del corpo e del pesce, non si ebbe piu’ la minima traccia.
Quando gli anziani ne parlavano, erano in disaccordo, alcuni asserivano che l’oggetto galleggiante era in realta’ un pescecane, altri propendevano sul fatto che si trattasse realmente di un pezzo di legno e che il pescecane ci fosse sotto.
In merito ai pescecani (generalmente verdoni) negli anni passati, nel periodo delle acciughe, ne venivano catturati diversi, queste catture avvenivano nelle ore notturne durante la pesca con le lampare. Se il verdone non era molto grosso, sotto i venticinque chili, veniva catturato, perlopiu’ dal capobarca, direttamente con le mani, se il pescecane era piu’ grosso veniva preso con un amo molto grosso, munito di catena e “illescato” con un grappolo di acciughe.
Altra avventura avvenuta intorno agli anni ‘20 ‘30 riguarda un equipaggio di Pra’ che, alla pesca dei bianchetti al largo della diga foranea del porto di Genova fu colto da una tempesta di vento da nord e nevischio. Non avendo la possibilita’ di governare la vela, ne’ raggiungere a remi il riparo della diga, non poterono far altro che prendere vento e mare in poppa cercando di stare a galla. La manovra riusci’ e l’equipaggio approdo’ in Francia nei pressi di Antibes.
Anche durante la guerra, i nostri vecchi soci, non rinunciarono alla pesca e con apposite lampade subacquee riuscivano anche a esercitare la pesca notturna, in caso di attacchi aerei con risposta della contraerea si rifugiavano nei pressi della Vesima zona alquanto isolata e riparata. Anche il pomeriggio che bombardarono Voltri, sulla nostra spiaggia si svolgeva la pesca alle “pase”. Vi fu pero’ un periodo ritengo fosse dopo il 1943 in cui la pesca era completamente ferma. Le barche, specie le piu’ grandi, venivano nascoste nella vicina campagna, i nuovi motori nascosti nei magazzini, il fatto era dovuto alle requisizioni di barche fatte dai tedeschi per utilizzarle per porre in opera ponti poggianti su barche.
Nonostante queste precauzioni, molte barche (mediamente sui 5 metri, prive di motore) vennero requisite. Terminata la guerra, queste requisizioni (le barche non si trovarono piu’) vennero risarcite, ma in modo irrisorio.
Terminato il conflitto, i pesci abbondavano, e i nostri pescatori non persero tempo, in breve erano nuovamente e sotto ogni punto di vista sulla cresta dell’onda.
In quel periodo, il tutto veniva gestito dal CLN ed anche qui, i pescatori fecero la loro parte versando una buona percentuale al CLN e per conto dello stesso, mettevano le barche a motore e loro stessi a disposizione, per il trasporto dal ponente di carciofi ed olio, rischiando sovente per il mare in burrasca e per le mine che dalle parti di Savona non erano ancora eliminate.
A proposito di mine due fatti abbastanza particolari.
In una bella giornata (forse nella primavera o nell’autunno del 1946) circa a 500 metri dalla spiaggia, di fronte al torrente San Pietro, una rete, tirata da terra, era rimasta impigliata. Portatisi sul posto, quei pescatori, accertavano che nella rete vi era una mina. Visti vani tutti i tentativi per staccare la rete, gli stessi chiesero a gran voce aiuto, come al solito, molti altri pescatori accorsero e mediante manovre a dir poco spericolate, riuscirono a tirare a terra la rete e mina, la stessa venne trascinata sino dal muro che divideva la stazione ferroviaria dalla spiaggia.
Alcuni anni dopo, altra mina e altro fatto curioso, alcuni operai, intenti a lavori di ammodernamento della foce del Rio Ramellina, proprio all’altezza del “muggiû” nel cunicolo del torrente trovarono un’altra mina inesplosa.
Evidentemente, o Pra’ ha dei santi in paradiso, o quelle mine erano state fabbricate dalla stessa ditta che ha fabbricato la famosa bomba di San Lorenzo.
Come indicato in precedenza, giunto al termine, nelle due pagine seguenti ricordero’ la canzone (almeno le parole) eseguita al momento della posa della statua di San Pietro.
Prima l’originale in genovese, poi la traduzione.
P.S.
Molti altri soci sarebbero in grado di ricordare quanto scritto, alcuni anzi in modo migliore. Io, magari piu’ avvezzo a mettere nero su bianco ho solo voluto iniziare. Di questo scritto autorizzo il direttivo a farne qualsiasi uso, anche quello di “inaugurare” i futuri gabinetti, unico desiderio, di rimanere nell’anonimato.
ODE A SAN PÊ
SENSA TEMME ‘NA SMENTÏA
DA-I PESCOEI DO NOSTRO MÂ
BULLI, ARDÏI E SENSA PUÏA
L’È IN DAVVEI QUELLI DE PRA’.
VEJA, REMME, SCIUSCIA O VENTO
CO-E MANATE E O GIANCHETTÂ
E Î TROVIÉI CO-O CHEU CONTENTO
SEMPRE PRONTI PE “VA”.
SE N’È ACCORTA ANCHE A MARCHEISA
CHE SAN PÊ HA GH’HA REGALLÒU
CHE SE Ô METTAN SENSA SPEISA
IN SCIÂ CASETTA DO MERCÒU.
TËGNI A LENGUA UN PÖ CIÙ A POSTO
O PESCÒU IN TO PESÂ
MENO FUMME E UN PÖ CIÙ ROSTO
NO STÂ A DÂGHE ‘NA DIÂ.
PE CUSTODE GH’È “O GALLINN-A”
CH’O L’HA DÏTO E ASSEGUÒU
CHE O SAN PÊ DA MARCHESINN-A
O SAIÀ BEN RISPETTÒU.
VIVA SAN PÊ PÖSÒU LÌ IN TA SEU NICCETTA
COMME DRENTO A ‘NA GËXETTA
O PESCÒU ANCHEU O TE SBRAGGIA QUESTO CANTO SCIÙ E ZÙ
O SAN PÊ DA MARCHESINN-A NO TE LASCIËMO CIÙ.
ODE A SAN PIETRO
SENZA TEMERE SMENTITE
DAI PESCATORI DEL NOSTRO MAREBULLI,
ARDITI E SENZA PAURA
SONO DAVVERO QUELLI DI PRA’.
VELA, REMI, SOFFIA IL VENTO
CON LE MANATE E RETI DA BIANCHETTI
LI TROVERETE COL CUORE CONTENTO
SEMPRE PRONTI AD ANDARE IN MARE.
SE N’È ACCORTA ANCHE LA MARCHESA
CHE GLI HA REGALATO LA STATUA DI SAN PIETRO
PER POSARLA A SUE SPESE
SULLA CASETTA DEL MERCATO.TIENI LA LINGUA PIÙ FRENATA
PESCATORE NEL PESARE I PESCI
MENO FUMO E PIÙ ARROSTO
E NON BARARE SUL PESO.
PER CUSTODE C’È “O GALLINN-A” (IL FU PUPPO GIUSEPPE)
CHE HA DETTO ED ASSICURATO
CHE IL SAN PIETRO DELLA MARCHESINA
SARÀ BEN RISPETTATO.VIVA SAN PIETRO POSATO LÌ NELLA SUA NICCHIA
COME DENTRO AD UNA CHIESETTA
IL PESCATORE OGGI TI URLA QUESTO CANTO SU E GIÙ
O SAN PIETRO DELLA MARCHESINA NON TI LASCEREMO PIÙ.
Autore ormai ignoto.
Questa poesia era anche ben musicata.